Caro Lorenzo,
la sua lettera ad Avvenire è una testimonianza che merita attenzione e risposta. Io non sono un capogruppo, ma in questi due mesi ho seguito il dibattito e le relative votazioni agli emendamenti in commissione affari sociali, a riguardo della legge sul “testamento biologico”. L’ho fatto su mandato del mio capogruppo, Renato Brunetta, assieme al collega Sisto.
Comprendo le sue preoccupazioni, che immagino siano le stesse di migliaia di persone gravemente malate o disabili e delle loro famiglie. Purtroppo la tragica fine di Dj Fabo ha fatto scattare nuovamente la “trappola emotiva”: il coro quasi univoco di giornali, tv, radio, web sta cercando di forzare la mano a noi deputati. L’obiettivo è arrivare direttamente a una legge pro eutanasia, profittando del fatto che il 13 marzo arriva in aula la legge sul “testamento biologico”.
È uno schema già visto, fin dai tempi della diossina a Seveso, usata a suo tempo per spingere per una legge a favore dell’aborto.
In un’era ipercomunicativa come la nostra, la trappola emotiva esprime una forza e una violenza inaudita, alla quale è difficile opporsi portando ragioni contro emozioni: il ragionamento ha bisogno di tempo e “spazio”, l’emozione ha invece impatto ed effetto immediato.
Tuttavia sono fiducioso che, in questo caso, non ci riusciranno. In commissione nessuna forza politica si è espressa o ha presentato emendamenti a favore dell’eutanasia. È un buon segno.
Per questo la invito a non cadere nella trappola dei media e dei “maestri di pensiero” che vogliono farci credere che il popolo italiano sia diventato eutanasico. Continui a chiedere la libertà di vivere, non quella di morire. Non è da solo, dentro e fuori dal Parlamento.
Ora ci sono dieci giorni di tempo per presentare gli emendamenti per l’aula. Vigilerò, vigileremo. Con tutti coloro che ci vorranno stare. Il nostro obiettivo è mettere capo a una norma che tenga insieme libertà di cura e tutela della vita. Sempre.
Non so se ce la faremo. Certamente però non dobbiamo abbassare la guardia, per non correre in alcun modo il rischio di finire come in Belgio.
Pubblicato su Avvenire, sabato 4 marzo 2017
Lascia un commento