Intervento per la discussione della risoluzione sul crocifisso
del 4 novembre 2003
Dividerò il mio intervento in due parti: la prima riguarda il merito dell’ordinanza con la quale il giudice Montanaro accetta il ricorso del provocatore islamico Adel Smith e il metodo che ha ispirato l’azione di Montanaro.
La seconda parte – forse la più interessante per riflettere sul futuro della nostra società – prende spunto dalla vicenda per capire quali riflessioni di carattere più generale essa porti con sé e che cosa possiamo imparare da questa vicenda.
1. Una ordinanza sbagliata tre volte.
L’ordinanza dell’Aquila deve essere discussa civilmente, senza demonizzazioni. Ma a mio avviso questa l’ordinanza è sbagliata sotto tre aspetti: per la ricaduta sociale, per il contenuto tecnico e per le motivazioni che la sostengono.
L’ordinanza è sbagliata sotto l’aspetto della sua ricaduta sociale perché non tiene conto del contesto in cui è maturata la richiesta di Adel Smith e delle ripercussioni che l’accoglimento di tale richiesta porta sulla società italiana e su un autentico processo di integrazione. Infatti l’ordinanza ha buttato benzina sul fuoco degli opposti fondamentalismi, come testimoniano i fatti avvenuti nei giorni scorsi. Credo sia stato un errore non tenere conto di queste inevitabili ricadute.
Per quanto riguarda l’aspetto tecnico, l’ordinanza è sbagliata perché l’ordinanza è tecnicamente un provvedimento d’urgenza, e richiede per legge: a) la competenza del giudice ordinario; b) un pregiudizio grave e irreparabile derivante dall’attesa del giudizio vero e proprio; c) un minimo di fondamento giuridico.
Circa la competenza del giudice ordinario, va ricordato che il servizio di pubblica istruzione rientra nella competenza esclusiva dei TAR (dunque, non c’è spazio per i giudici ordinari).
Circa l’urgenza basta osservare che i figli di Amith frequentavano da tempo l’aula con il crocifisso senza aver avuto traumi. E comunque la croce nelle scuole e in altri edifici pubblici c’è da tanto tempo e dunque si potevano aspettare i tempi “giusti” per un giudizio più ponderato e condiviso.
Circa il fondamento giuridico, ricordiamo – come abbiamo scritto nelle premesse della nostra risoluzione – che le leggi attualmente in vigore non hanno modificato l’articolo 118 del regio decreto 30 aprile 1924, n. 965, secondo il quale ogni aula deve avere l’immagine del crocifisso, e l’allegato C del regio decreto 26 aprile 1928, n. 1297, secondo cui il crocifisso fa parte dell’ordinario arredamento scolastico;
il parere del Consiglio di Stato del 1988 ha confermato che devono ritenersi tuttora legittimamente operanti le disposizioni emanate nel 1924 e nel 1928 perché non riguardano l’insegnamento della religione cattolica, né costituiscono attuazione degli impegni assunti dallo Stato in sede concordataria;
la sentenza della Cassazione del 13 ottobre 1998 ha spiegato che l’esposizione del crocifisso non viola la libertà religiosa perché «rappresenta un simbolo della cultura cristiana come essenza universale, indipendente da una specifica confessione»;
Inoltre l’articolo 9, punto 2 del testo dell’Accordo del 1984 tra Repubblica e Santa Sede, afferma che la Repubblica continuerà ad assicurare l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado perché la Repubblica italiana riconosce il valore della cultura religiosa e tiene conto del fatto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano.
Infine l’ordinanza è sbagliata nella sua motivazione. Nel testo del giudice Montanaro si legge: “Le giustificazioni addotte per ritenere non in contrasto con la libertà di religione l’esposizione del crocifisso (…) sono divenute ormai giuridicamente inconsistenti, storicamente e socialmente anacronistiche, addirittura contrapposte alla trasformazione culturale dell’Italia”.
La domanda è: nel nostro ordinamento spetta al giudice stabilire che cosa è fuori epoca? E sulla base di quali criteri? E’ compito del magistrato certificare la conformità delle norme ai cambiamenti culturali? Chi gli ha attribuito questo ruolo?
Per motivare la sua ordinanza il dott. Montanaro deve ricorrere a un dato metagiuridico, necessariamente soggettivo, che lui adopera per contestare l’orientamento espresso dal Consiglio di Stato, dall’Avvocatura dello Stato e dalla Corte costituzionale e per autoconferirsi il tremendo potere di saper cogliere i segni dei tempi.
Montanaro inoltre contesta la tesi secondo cui “esisterebbe (…) un’identità italiana, forgiata dai principi del cattolicesimo, che non può essere cancellata, così come non si possono cancellare la Divina Commedia o gli affreschi di Giotto”. Di questo passo – come è stato da molti rilevato in questi giorni – quando i figli di Adel Smith arriveranno al liceo, il loro islamico genitore attiverà un ricorso d’urgenza per inibire al professore d’italiano la lettura di Dante: se la visione del crocifisso, come dice l’ordinanza, crea un danno grave e irreparabile, figurarsi quali sconquassi potrebbe provocare lo studio dell’Inferno, così popolato di seguaci di Maometto…
2. Che cosa rappresenta il crocifisso
Tuttavia, come sempre nella vita, da un male può nascere un bene, se sapremo trarre dalla vicenda del crocifisso nella scuola di Ofena le dovute considerazioni di carattere culturale, sociale e politico.
Dice il giudice Montanaro nelle motivazioni della sua ordinanza: “La presenza del crocifisso nella aule scolastiche comunica un’implicita adesione a valori che non sono in realmente patrimonio comune di tutti i cittadini…imponendo un’istruzione religiosa che diviene obbligatori per tutti…connotando così in maniera confessionale la struttura pubblica “scuola”.
In realtà il crocifisso rappresenta molte cose. Esso è senza dubbio un simbolo religioso, il simbolo della religione storica del popolo italiano e della prima religione del mondo, il cristianesimo. Esso è segno e memoria del sacrificio di Gesù Cristo, venuto a rivelarci che il Figlio di Dio si è fatto uomo per salvare tutti gli uomini, con la sua morte e la sua risurrezione
Ma oltre a questo fondamentale e significato, il crocifisso è espressione e segno di oltre 2000 anni di storia, di civiltà e di cultura, della quale si trova testimonianza in tutti i comuni d’Italia e in tutti i musei in Italia, in Europa e nel mondo. E, soprattutto, il crocifisso è l’emblema di valori quali la libertà incomprimibile di ogni essere umano, il rispetto di tutte le fedi religiose, la fratellanza dell’intera umanità, la parità tra uomo e donna, la separazione tra «Dio e Cesare» fondamento della laicità dello Stato. Si tratta dei valori faticosamente affermatisi nella nostra bimillenaria storia e che fondano l’identità dell’Italia, dell’Europa e dell’intero Occidente. Valori assoluti e non negoziabili, valori autenticamente veri e non relativi, perché sono i valori dell’essere umano, inscritti nel cuore di ogni uomo e che lo difendono da ogni autoritarismo politico o religioso. Valori che formano il prerequisito per uno sviluppo sociale ed economico autenticamente umani.
Qui sta il punto: il crocifisso non è “solamente” un simbolo religioso ma è per così dire la nostra carta d’identità, il punto di origine di chi siamo noi, è l’emblema di chi ha rivelato all’uomo se stesso capovolgendo i fondamenti su cui fino ad allora si erano rette le società antiche. Come affermava Croce, le radici cristiane sono diventate ragioni laiche e sono queste radici e queste ragioni che noi dobbiamo presentare a chi arriva tra noi, senza vergogna o pudore dell’origine dei nostri valori, consapevoli che i valori possono reggere se ancorati fortemente alla radice che li ha generati, soprattutto nel nuovo contesto determinato dall’immigrazione islamica e dalla globalizzazione.
Credo che questo abbiano capito i tanti non cattolici dichiarati che in questi giorni hanno difeso la croce. Il loro imprevedibile schierarsi a difesa del crocifisso è dovuto al fatto che la provocazione di Smith ha fatto emergere un timore che già alcuni osservatori avevano segnalato alla fine degli anni ’90 e che la dichiarazione di guerra contro l’Occidente compiuta con gli attentati dell’11 settembre 2001 ha reso evidente. Si tratta della paura che l’Italia e l’Europa siano minacciate nelle proprie tradizioni dall’immigrazione islamica. Tesi accentuata da chi afferma che taluni paesi musulmani avrebbero pianificato di conquistare “pacificamente e silenziosamente” l’Europa per poi imporre la loro religione e la illiberale legge islamica, usando come “arma” le nostre leggi liberali, la nostra debolezza culturale di popoli intimoriti perfino dei propri pensieri, timorosi che qualsiasi affermazione della nostra identità possa configurarsi come razzista e intollerante, la forza dei numeri (gli islamici sono giovani e fanno figli, noi no) e il vigore espansivo della loro fede.
3. Il relativismo culturale
In definitiva i non cattolici che hanno difeso la croce hanno capito che l’immigrazione multiculturale, in particolare quella islamica, ha cambiato il contesto nel quale ci troviamo a vivere e che i riflessi ideologicamente condizionati che potevano valere nella seconda metà del Novecento oggi non hanno più motivo d’essere. Per capire il nuovo contesto sociale non serve utilizzare le vecchie categorie di pensiero ma occorre mettere capo a nuovi modi di leggere la realtà, perché essa non è più come era una volta.
E’ dunque necessario saper dare motivazioni ragionevoli, condivisibili e convincenti, in modo particolare per i nostri giovani, che mi sembrano i grandi assenti dal dibattito di questi giorni, come se gliene importasse ben poco. La vicenda di Ofena ha messo in scena un nuovo tipo di frattura generazionale: i “vecchi” (quelli da quarant’anni in su) dimostrano di avere ancora una appartenenza culturale nazionale da difendere; i ventenni e i trentenni si accontentano di Halloween. E così può accadere che mentre Bertinotti difende il crocifisso, la nostra trentenne collega di Rifondazione Titti De Simone presenta una proposta di legge per abolire le norme che impongono la presenza del crocifisso nelle scuole.
Questa situazione è la conseguenza di almeno vent’anni di dominio del relativismo culturale, concetto difficile che significa una sola cosa: l’unica verità è che non c’è verità. Di conseguenza tutte le culture e i modi di vita devono avere pari dignità e chi afferma che la verità esiste è un nemico della libertà e un fondamentalista intollerante. Vivi e lascia vivere, indifferente a quanto ti circonda, è la condizione nella quale crescono le nuove generazioni: un relativismo senza storia e senza memoria, senza radici e senza futuro, che non crede in nulla o non ha il coraggio di difendere ciò in cui crede per non apparire intollerante.
Noi sappiamo bene che la libertà può sussistere solo se lo stato non fa sua nessuna particolare ideologia, nessun dogma, nessuna religione e se assicura ai singoli e ai gruppi la libertà di esistere nella identità culturale prescelta, di proporre agli altri le proprie convinzioni, di educare secondo i propri principi, nel rispetto delle leggi e delle libertà altrui. Ma pggi nel contesto determinato da immigrazione islamica e globalizzazione lo stato laico e democratico non può scadere nell’indifferentismo: occorre riproporre la concezione di uomo che deriva dall’antropologia cristiana, la quale ha costituito il fondamento delle democrazie occidentali: un umanesimo, esito finale di secoli di faticosissima evoluzione del pensiero occidentale, che tutela i diritti fondamentali e inalienabili propri di ogni essere umano, compreso il “diritto” di cercare la verità. Per questo fermo restando il diritto di ogni persona a vivere un’esistenza degna secondo la propria identità culturale, non possiamo cancellare il dato di realtà che ciò avviene in un ambiente storicamente e culturalmente cristiano, in Italia cattolico.
Questa è l’alternativa al relativismo culturale, etico e politico, che può unire tutti gli uomini di buona volontà.
4. La laicità è un metodo non un contenuto
Superare i vecchi schematismi per saper leggere in modo adeguato il nuovo contesto sociale e culturale nel quale stiamo vivendo significa anche ribadire il corretto concetto di laicità.
Innanzi tutto va detto che la laicità indica un metodo, non dei contenuti. Oggi è in vigore nel nostro Paese la antistorica concezione di chi continua a vedere nel fenomeno religioso (anzi nella nostra religione) l’oppio dei popoli o un ipocrita instrumentum regni. Nel nostro Paese questa concezione di laicità finisce di fatto opporre il laico al credente cattolico, con il corollario che di norma il cosiddetto laico è per definizione persona ragionevole e tollerante mentre il cattolico è per antonomasia irragionevole e oscurantista.
Dietro alla laicità in molti casi si nasconde un malcelato odio per tutto ciò che è attinente alla cultura occidentale, vale a dire un odio per noi stessi. Il laicista vuole confinare il fenomeno religioso tradizionale del popolo italiano all’interno delle singole coscienze, ridurlo a un’opzione, anzi a un sentimento: un sentimento per lui puerile, ma tollerabile fin tanto che non pretende di concretarsi in iniziative sociali o (tanto meno) politiche.
Il laico invece, credente o non credente che sia, pur distinguendo con chiarezza tra l’ambito religioso e quello statuale e non accettando che il secondo sia sottomesso al primo, è disposto a riconoscere che chiunque possa portare un utile contributo alla vita sociale e che le proposte vanno giudicate nel merito.
Infatti la vera laicità consiste nel porsi di fronte a tutti i fenomeni con atteggiamento di domanda e aperto alla ricerca di verità: ciò accomuna chi crede e chi non crede e consente di non rinnegare le proprie radici culturali e di poterle presentare serenamente ma con forza e orgoglio a chi viene a vivere in mezzo a noi appartenendo a culture e religioni diverse.
5.La dittatura delle minoranze
Oltre alla riflessione sull’impostazione relativistica e sul concetto di laicità, dalla vicenda di Ofena viene anche offerto spunto per riflettere sul concetto di uguaglianza. Per il dott. Montanaro i “principi costituzionali (…) impongono (…) la neutralità delle strutture pubbliche di fronte ai contenuti ideologici”. Ma cosa significa neutralità? Forse sostenere chi si fa scudo della neutralità rende una affermazione fortemente ideologica, che rinvia a quel relativismo assoluto che è esso stesso una ideologia. Abbiamo già detto che l’indifferentismo non può essere la cifra culturale che caratterizza uno stato laico e democratico oggi in Italia, proprio perché esso è sottoposto al duplice attacco della globalizzazione culturale e dell’aggressiva iniziativa di circoli islamici che puntano dichiaratamente a cancellare il retaggio culturale su cui si regge l’identità occidentale.
L’uguaglianza non può perciò essere confusa con l’omologazione o con l’annichilimento della propria identità. Se ciò è vero in assoluto tanto più lo è nello scenario determinato dall’immigrazione musulmana e plurireligiosa: oggi l’applicazione ideologica, cioè astratta dal mutato contesto sociale, del principio di uguaglianza genera intolleranza, non integrazione.
Non si può in nome di una scorretta e pericolosa interpretazione del principio di eguaglianza, impedire alla maggioranza del nostro popolo di esprimere la propria tradizione religiosa e i connessi valori culturali. Nel contesto multietnico e multiculturale ciò potrebbe facilmente trasformarsi in un fattore d’instabilità e, quindi, di conflitto. La coesione sociale e la pace non possono essere raggiunte cancellando le peculiarità religiose di ogni popolo, paradossalmente finendo con il realizzare – come da qualche anno avviene in molte scuole del nostro Paese – una sorta di “dittatura delle minoranze”, che calpesta il diritto della maggioranza dei cittadini a vedere rispettate le proprie tradizioni, usanze, i propri simboli religiosi e culturali. Ma se la maggioranza si automutila della propria cultura e della propria religione come può dialogare con le religione minoritarie, con le altre culture? Un eccesso di tolleranza rischia di generare eccessi di intolleranze. In questo senso trovo molto positivo quanto previsto dall’art. 2 comma 1 della legge di riforma della scuola, laddove si dice che “sono promossi il conseguimento di una formazione spirituale e morale, anche ispirata ai principi della Costituzione, e lo sviluppo della coscienza storica, e di appartenenza alla comunità locale, alla comunità nazionale e alla civiltà europea”.
In conclusione, molti abbiamo detto nella nostra risoluzione che il crocifisso oltre a essere il segno della fede del popolo italiano è l’emblema dei valori dell’Occidente: la libertà della persona, il rispetto di tutte le fedi religiose, la laicità dello Stato.
Gesù ha saputo porsi come la Verità e insieme difendere la libertà di ogni singolo essere umano di accettarla o meno. Questa è l’opportunità che ci viene dalla vicenda del crocifisso di Ofena: riprendere a coniugare insieme verità e libertà e insegnarlo ai nostri ragazzi in modo convincente, in primis con il nostro esempio.
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